articolo a cura di Emilia Giorgetti, tratto da il manifesto sardo
16 ottobre 2013
Emilia Giorgetti
Sabino Gualinga è il leader spirituale del popolo Sarayaku – i discendenti del Giaguaro -, il cui territorio è incastonato in una zona remota dell’Amazzonia ecuadoriana. “Fin da bambino ho saputo tutto della foresta…conosco la sua vita, fino alla sua più piccola pietra” ha dichiarato nel suo idioma ancestrale di fronte alla Corte Interamericana dei Diritti Umani (CIDH) riunita a San José di Costa Rica nel dicembre del 2012, durante l’udienza che ha visto i Sarayaku vittoriosi contro l’Ecuador. Nessuno li avvisò quando, nel 2002, l’Ecuador concesse i diritti per la esplorazione petrolifera nel loro territorio. Per mesi gli uomini della compagnia, scaricati dagli elicotteri e protetti dall’esercito e dalla polizia, abbatterono alberi, trivellarono e minarono senza curarsi delle proteste pacifiche dei Sarayaku. Per anni i Sarayaku, decisi a far valere i propri diritti, lottarono e scalarono tutte le gerarchie fino ad arrivare alla CIDH e a vincere, ottenendo una sentenza storica: l’Ecuador è stato riconosciuto colpevole di violazione del diritto delle comunità indigene al consenso libero, previo e informato sull’utilizzo delle loro terre ancestrali – sancito dal trattato 169 dell’Organizzazione Mondiale del Lavoro e dalle Nazioni Unite -, è stato obbligato a risarcire i danni subiti dai Sarayaku e a bonificare il loro territorio dalle tonnellate di dinamite abbandonate dalla compagnia. “Chiediamo alla corte che ci protegga” queste le parole della portavoce dei Sarayaku a San José. “Chiediamo che ci lascino continuare in pace con la nostra vita. Sono ormai pochi i popoli indigeni. Anche l’Amazzonia sta scomparendo. Chiediamo di essere consultati quando si programmano attività dannose nei nostri territori. E, se diciamo ‘No’, chiediamo che si rispetti la nostra decisione.”
Le sentenze della Corte, però, non fermano gli interessi economici che, poco a poco, consumano gli ultimi spazi di autonomia dei popoli nativi del continente americano. In Honduras, per esempio, il colpo di stato del 2009 e l’amministrazione che da questo è scaturita, hanno scatenato una vera e propria corsa all’accaparramento di terre ricche di risorse o che rivestono un interesse strategico per il controllo delle rotte del narcotraffico.
La Mosquitia honduregna è una regione inaccessibile di foresta tropicale. Con il pretesto della lotta ai cartelli della droga, gli USA vi hanno già stabilito 3 basi militari dalle quali possono controllare un territorio che galleggia su un immenso lago di petrolio e i cui abitanti rappresentano solo un ostacolo ai progetti di sfruttamento o, nella migliore delle ipotesi, una fonte di mano d’opera docile e a buon mercato. Nelle prime ore del mattino dell’11 maggio del 2012, la popolazione di Ahuas udì gli elicotteri della DEA (agenzia statunitense per la lotta alla droga) volare basso sul fiume Patuca e poi gli spari. Secondo la versione ufficiale, due narcotrafficanti erano stati uccisi nel corso di una operazione antidroga. Ma non ci volle molto perché emergesse la realtà dei fatti: le vittime erano quattro indigeni misquitos – due donne incinta, un giovane e un ragazzo di 14 anni -, colpiti a morte mentre viaggiavano su una imbarcazione tradizionale lungo il fiume. Insieme a loro quattro feriti gravi, tra cui Wilmer, allora quattordicenne, dopo più di un anno ancora ricoverato in un ospedale di Tegucigalpa. E’ assistito dalla madre che, per stargli vicino, ha dovuto lasciare il lavoro e la famiglia e trasferirsi nella capitale. Per gli assassini, invece, nessuna conseguenza: il crimine è impunito come migliaia di altri nel paese.
Nel nord dell’Honduras, invece, l’intero dipartimento di Yoro è stato destinato a terreno di rapina del grande capitale. Qui vivono i Tolupanes, l’etnia più martirizzata dell’intero universo honduregno di popoli originari. Le ultime vittime della lotta per la difesa del territorio e della sua biodiversità sono Armando Fúnez Medina, Ricardo Soto Medina e María Enriqueta Matute, uccisi a sangue freddo il 25 agosto scorso da Selvin e Carlos Matute, due sicari che, come altri membri della banda nota come Los Matutes, scorrazzano in moto nei territori della tribù di San Francisco, sparando in aria a scopo intimidatorio e scortando i pickup carichi di legname pregiato e antimonio sottratti illegalmente ai Tolupanes da impresari collusi con le autorità nazionali e con la polizia.
Se con la nuova Ley de Minerìa si prevedono 3-400 nuove concessioni, corrispondenti a circa il 15% del territorio nazionale, la guerra dell’acqua è appena agli inizi. All’indomani del colpo di stato contro Manuel Zelaya, il parlamento honduregno, guidato da Roberto Micheletti, approvò la Ley General de Aguas, dalla quale sono poi scaturite le concessioni che, poco a poco, stanno trasferendo in mani private decine di fiumi destinati alla generazione di energia idroelettrica. I circa 300 progetti di dighe previsti fanno parte di un gigantesco piano che spazia dal Messico fino alla Colombia, volto a fornire energia elettrica sia al sud est degli Stati Uniti che all’attività estrattiva locale delle imprese multinazionali. Di questi fa parte il progetto ‘Agua Zarca’, nel nord ovest dell’Honduras, una joint venture tra l’impresa nazionale DESA e la cinese Sinohydro per la realizzazione di una centrale da 23 MW. Le comunità locali non ci stanno e, dagli inizi dell’aprile 2013, gli indigeni lenca di Río Blanco stanno impedendo all’impresa l’accesso al fiume Gualcarque, la loro fonte di vita e di spiritualità. Nonostante i ripetuti sgomberi forzati, da mesi, ogni giorno, uomini, donne e bambini, marciano pacificamente fino ai cancelli dell’impresa per manifestare il proprio rifiuto del progetto.
Ma il governo è inamovibile: Agua Zarca rappresenta la porta di ingresso della Cina nel paese e si prospettano affari milionari per l’oligarchia al potere. Per questo DESA e le stesse forze armate sono incaricate non solo di reprimere l’opposizione indigena, ma anche di corrompere le autorità locali e le comunità interessate con un capillare lavoro porta a porta: un voto a favore del progetto nelle assemblee comunitarie viene pagato 1000 lempiras (40 euro).
Quando la corruzione non funziona si usa ogni altro mezzo per costringere al silenzio chi chiede solo il rispetto del proprio diritto di dire ‘No’ ad un progetto che sconvolgerà la sua vita. Il 15 luglio, a Río Blanco, l’esercito ha sparato per la prima volta, uccidendo Tomás García e ferendo gravemente suo figlio di 17 anni. Berta Cáceres, la coordinatrice del COPINH (Consiglio Nazionale dei Popoli Indigeni di Honduras), è stata sottoposta a un’ondata di vessazioni senza precedenti per l’appoggio fornito alla comunità lenca. Prima le minacce, i pedinamenti, i sabotaggi dell’auto e i tentativi di omicidio; poi, in seguito alla ispezione della sua auto da parte di un gruppo di militari, la denuncia per porto illegale di armi, con l’accusa di attività terroristica ai danni dello stato. Il processo farsa che si è svolto lo scorso 13 giugno presso la corte penale di santa Barbara, Intibucá, assediata da manifestanti giunti da ogni angolo del paese e blindata da polizia ed esercito, non è riuscito a concludersi con una sentenza di condanna, tante e tali erano le irregolarità compiute dall’accusa. Ma il potere non demorde pur di difendere gli interessi di due imprese che stanno vedendo lentamente sfumare il loro affare a causa della legittima protesta indigena. Il passato venerdì 20 settembre il pubblico ministero del Tribunale de La Esperanza, Intibucá, ha ordinato l’arresto preventivo per Berta e misure sostitutive per i suoi compagni di lotta e membri del COPINH Tomás Gómez e Aureliano Molina, nell’ambito di un nuovo processo istruito a seguito alla denuncia delle imprese DESA e Sinohydro, che li accusano di usurpazione e di danni per più di 3 milioni di dollari. Anche se ogni giorno per lei può essere l’ultimo e i due figli ventenni vivono all’estero per motivi di sicurezza, Berta non si lascia intimidire. Niente può soffocare i grandi sorrisi che illuminano il suo volto solare e la determinazione che ha solo chi è sicuro di combattere una lotta giusta.
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