Sospeso dopo 8 ore di udienza il processo Bertha Caceres, leader indegena del Copinh. È accusata di possesso di armi da fuoco: in realtà era stata fermata per le azioni contro la costruzione di una centrale idroelettrica. Più volte in Italia, nel 2012 ha ricevuto in Germania il premio “Shalom”
In un Paese governato da una dittatura “perfetta” (cioè uscita da irregolari elezioni), un’attivista per i diritti umani domani va a processo, sulla base di un’accusa totalmente inventata. Lei si chiama Bertha Caceres, ed è la Coordinatrice generale del Copinh, organizzazione indigena honduregna, nonché una delle personalità più in vista della resistenza al golpe infinito, quello che dall’estate del 2009 ha preso il posto della già fragile democrazia nel piccolo Paese centroamericano.
Né cubana, né cinese, ai media italiani non interessa ciò che domani potrebbe accadere a Bertha. Interessa a me, però, che conosco Bertha da dieci anni, e da altrettanti (insieme al Collettivo Italia Centro America) accompagno le azioni del Copinh, Consejo Cívico de Organizaciones Populares e Indígenas de Honduras (Consiglio civico di organizzazioni popolari e indigene di Honduras).
Manifestazioni sempre popolari e pacifiche, ma radicali e di massa. Dalle occupazione di strade e di terre ai girotondi fino a cingere il Parlamento del Paese.
Ecco perché non posso credere all’accusa che parla di “possesso d’arma da fuoco”, e descrive Bertha come una persona capace addirittura di mettere a rischio la sicurezza nazionale del Paese.
Accuse che potrebbero portare a una condanna fino a 6 anni di carcere.
La realtà dei fatti è che Bertha è stata fermata -nella notte tra il 24 e il 25 maggio- nei pressi della comunità di Río Blanco, dove le comunità indigene lenca del dipartimento di Intibucá stanno protestando, con il sostegno del Copinh, contro un mega progetto idroelettrico, Agua Zarca: tra le forme della protesta della comunità, anche una toma de carretera, una occupazione costante della strada di accesso al cantiere che va avanti da oltre 70 giorni.
L’11 giugno Bertha è stata intervistata da America Latina in movimiento (ALAI). A Giorgio Trucchi che le chiedeva il suo stato d’animo ha risposto: “Mi sento forte e degna, e non mi lascerò intimidire da queste misure repressive. Ancora più forza me la dà la resistenza del Copinh, quella delle comunità, e anche la solidarietà nazionale e internazionale. Per tutta la vita ho saputo ciò che può accadere a chi sceglie di partecipare alle lotte, e sono consapevole che stiamo affrontando il poter dell’oligarchia, delle banche, della finanza transnazionale, ma anche lo Stato di Honduras e i suoi corpi repressivi, che storicamente si sono piegati agli interessi delle grandi imprese”.
È una donna fiera Bertha, che già nei primi due anni Duemila era stata costretta a riparare negli Stati Uniti d’America, in seguito a minacce subite; è una donna intelligente, capace come pochi di “spiegare la finanza” e di portare migliaia di persone in piazza -in quegli stessi anni- contro “un mostro chiamato BID”, cioè Banca interamericana di sviluppo, denunciando l’azione della banche regionali quando in Europa i movimenti sociali erano ancora fermi al Fondo monetario internazionale e alla Banca mondiale, e non sapevano nemmeno dove fosse di case la Banca europea degli investimenti. È una pacifista Bertha: la stessa donna che oggi è accusata di possesso illegale di armi da fuoco durante la sua ultima visita in Europa, nel giugno del 2012, aveva fatto tappa in Germania, per ritirare il premio Shalom per la giustizia e la pace.
Pochi giorni prima ci eravamo incontrati, a Milano. Aveva partecipato all’inaugurazione di una mostra fotografica, dedicata al Las Mujeres Rebeldes del Sud-est messicano e dell’istmo centro americano. Dopo l’incontro, durante la cena, avevo parlato con l’attivista appassionata ma anche con l’amica, che aveva confidato quant’era stato difficile -come madre- veder partire i propri figli, emigrati in Argentina non alla ricerca di un futuro migliore ma solo perché per loro, figli di Berha Caceres, l’Honduras non è più un Paese sicuro. Perché, checché non ne dicano i media italiani, l’ex Repubblica delle banane è una dittatura.
Che l’Italia protegge avvolgendo nel silenzio ciò che vi accade, a causa degli interessi economici di molte imprese italiane. A cominciare da quelle del settore turistico, che godono ancora della vetrina offerta dal reality show l’Isola dei famosi. Ma il reality, purtroppo, non è la realtà.