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DOSSIER
HONDURAS
Terra, popolazioni indigene
e risorse naturali
Sette milioni di abitanti sparsi su un territorio grande un terzo dell’Italia, Honduras è l’unico tra i paesi centroamericani a non aver conosciuto, negli anni tra il 1970 e il 1990, l’insorgere di un esercito di liberazione nazionale. Anzi: dalla base Usa di Palmerola, in Honduras, si muovevano le truppe dei contras, addestrate per combattere le guerriglie in Nicaragua ed El Salvador. Governato da una dittatura militare –quasi ininterrottamente– fin dagli anni 30, le prime elezioni libere si sono svolte nel 1981. Da allora, il Partito Nazionale (PN) e il Partito Liberale (PL) condividono potere ed interessi economici, in un bipartitismo perfetto. Nelle ultime elezioni –tenutesi il 26 novembre del 2005– PN e PL hanno raccolto il 95% dei voti (per la cronaca, ha vinto Mel Zelaya, del PL, che sarà presidente per i prossimi 4 anni); i partiti minori –Democrazia Cristiana (DC), Unificazione Democratica (UD) e Partito per l’Innovazione e l’Unificazione Nazionale (PINU)– avranno, in tre, meno di dieci seggi al Congresso. Poche famiglie –legate ai due partiti di governo– si fanno sempre più ricche mentre il resto del paese affonda: il 10% degli hondureñi controlla quasi il 40% della ricchezza, in perfetta media centroamericana, mentre il PIL procapite –900$ l’anno– è il più basso della regione dopo quello del Nicaragua; il 63% della popolazione vive al di sotto della soglia di povertà (nelle aree rurali, dove vive la metà degli hondureñi e la totalità di quanti appartengono ad una etnia indigena, la povertà riguarda i 3/4 della popolazione); almeno 650mila famiglie dipendono dalle rimesse degli immigrati, 1miliardo e mezzo di dollari (quasi il 10% del PIL) nel 2005. Come ultimo regalo al paese, il presidente uscente –Maduro del PN– ha firmato il CAFTA, Central America Free Trade Agreement, poi ratificato dal Congresso. Il trattato, in vigore dal 2006, aggraverà la dipendenza di Honduras dall’economia Usa: già oggi, oltre la metà delle importazioni arrivano dagli Stati Uniti d’America e supera il Río Bravo il 69% dell’export di Honduras. 1. Terra PATH, il ruolo dell’Unione Europea L’Unione Europea promuove un progetto per la privatizzazione delle terre comunali dei popoli indigeni di Honduras, il cui acronimo è PATH, «sentiero» in inglese. Il Programma de Administración de Tierras de Honduras, finanziato dall’UE e realizzato con il sostegno di Organizzazioni non governative [Ong] del Vecchio continente [tra le italiane, il CISP –Comitato Internazionale per lo Sviluppo dei Popoli– www.cisp-ngo.org], altro non è che il tentativo di rendere più agile l’acquisizione di enormi lotti di terra da dedicare all’agro industria. In barba ai titoli comunitari riconosciuti dalla Costituzione di Honduras [art. 346, «È un dovere dello Stato dettare norme a protezione dei diritti e degli interessi delle comunità indigene esistenti nel paese, e in special modo delle terre e dei boschi dove queste risiedano»] e al Convenio n. 169 dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro ratificato da Honduras nel giugno del 1994. In novembre (2005), abitanti di differenti comunità lenca del municipio indigeno di San Francisco de Opalaca, nel dipartimento di Intibucá, hanno denunciato pubblicamente l’Unione Europea. Secondo le comunità, affiliate al COPINH [Consejo Civico de Organizaciones Populares e Indigenas de Honduras], «il proposito del programma è il catasto dei territori di tutti i municipi del dipartimento di Intibucá per poi imporre carichi tributari […] e fare in modo che noi indigeni, non potendo pagare le tasse, possiamo essere spogliati delle nostre terre». Tutto questo, spiega Salvador Zuniga, del COPINH, per favorire –sostanzialmente– un’impresa, la ENERSA, che sta avviando la costruzione di una centrale idroelettrica sul rio Gualcarque, in territorio del municipio indigeno di San Francisco de Opalaca. Lo stesso programma viene implementato anche lungo la costa Atlantica, nelle comunità abitate dal popolo garifuna, afro discendenti giunti lungo le coste hondureñe oltre duecento anni fa. «Prima dell’indipendenza del paese dalla Spagna», ci tengono a precisare i rappresentanti di OFRANEH [Organización Fraternal de los pueblos Negros de Honduras]. Miriam Miranda, la direttrice, ci spiega che tanto il Governo quanto le amministrazioni locali premono affinché tutti abbiano un titolo di proprietà individuale. «Quando possiedi un certificato, allora puoi anche ipotecare la terra», conclude amara: ad oggi, già il 70% del territorio dei garifuna è in mano a terzi, e il Governo preme per poter sviluppare megaprogetti turistici che –promette– porteranno sviluppo e prosperità alle comunità. La questione della terra è strettamente legata alla tematica indigena e a quella garifuna, le popolazioni afro-discendenti che vivono lungo la Costa Atlantica del Paese. Riportiamo due esempi: la storia dei lenca di Montaña Verde e quella del progetto turistico di Bahia de Tela in territorio garifuna. 1.1 Lenca di Montaña Verde "Gli oppressori sono codardi e presto saranno sconfitti. Sono molto ricchi ma sono pochi; noi al contrario siamo poveri, però siamo molti. Noi gattini, uniti, sconfiggeremo la tigre". Così Marcelino Miranda, leader indigeno della comunità lenca di Montaña Verde, municipio di Gracias, dipartimento di Lempira, in Honduras, salutava amici ed amiche, i compagni di strada che in tutto il mondo hanno accompagnato la vicenda umana e giudiziaria sua e del fratello Leonardo, in una lettera scritta il 21 novembre del 2004 nel Centro Penal di Gracias. La speranza accompagna ancora i fratelli Miranda, dopo che una recente (11 novembre 2004) sentenza della Corte Suprema del Paese ha ribaltato la condanna a 25 anni di carcere comminata loro nel dicembre del 2003, con l'accusa dell'omicidio di Juan Reyes Gómez, avvenuto nel 2001, rovesciando anche la decisione del Tribunale d'Appello, che nel giugno 2004 aveva respinto l'istanza presentata dalla difesa di Leonardo e Marcelino. In un comunicato stampa diffuso subito dopo la sentenza della Corte Suprema, anche Amnesty International ha dichiarato di considerare i due leader lenca prigionieri politici, e le accuse nei loro confronti come montate ad hoc per impedir loro di continuare l'importante lavoro politico in favore del riconoscimento dei diritti dei popoli indigeni di Honduras e della salvaguardia dell'ambiente. "La sentenza contro Leonardo e Marcelino Miranda é stata caratterizzata da irregolarità, dalla mancanza di prove, dalla parzialità nel considerare i testimoni. Sono stati considerati soltanto i testimoni dell'accusa, mentre sono stati ignorate le dichiarazioni dei testimoni della difesa", menziona AI. Che continua: "Le accuse contro i fratelli Miranda non deriverebbero da azioni criminali, bensì dal proposito di impedire le loro attività per proteggere l'ambiente e la proprietà della terra nelle loro comunità. Gli abusi contro i popoli indigeni di Honduras [...] stanno preoccupando Amnesty International da anni. Le accuse contro i fratelli Miranda hanno l'obbiettivo di ostacolare la lotta per il riconoscimento dei diritti di proprietà della terra delle loro comunità, e sono protette da forti interessi economici e politici che si oppongono al lavoro a favore delle comunità indigene". Arrestati l'8 gennaio del 2003 nel corso di un vero e proprio operativo militare, cui parteciparono anche agenti delle forze speciali (i Cobras), Leonardo e Marcelino hanno subito sin dal primo momento percosse e torture, poi continuate in prigione. Numerose sono state anche le minacce di morte nei loro confronti, come denunciato dal COPINH, il Consejo Civico de Organizaciones Populares e Indigenas de Honduras, in un comunicato con cui nel luglio scorso chiamava ad una mobilitazione internazionale in favore dei due leader lenca, dopo la sentenza della Corte d'Appello di Santa Rosa del Copan, che confermava la condanna del Tribunale di Gracias nei confronti dei due fratelli. "Marcelino fu obbligato a trasportare alcuni fucili legati al suo collo, e sommersero la testa di Leonardo più volte in una pozza, fino quasi ad affogarlo. Anche durante il tragitto in auto verso Gracias furono torturati spengendo loro sigarette sulle facce e sulle orecchie". La storia di Montaña Verde… La storia di Montaña Verde è una tra le tante storie di violenza e di quotidiana negazione dei diritti delle popolazioni indigene. Un'ordinaria storia centroamericana, che vede contrapporsi da un lato ricchi latifondisti, interessati al controllo della terra, delle fonti d'acqua ed al commercio del prezioso legname delle foreste vergini della comunità, e dall'altro la popolazione originaria, che vigila e protegge le risorse naturali presenti sul territorio. I lenca di Montaña Verde sono associati al COPINH, che da quasi un decennio accompagna la lotta della comunità per il riconoscimento giuridico del diritto di proprietà sulle terre occupate da più di duecento anni. Nel 2000 "l'Istituto Nazionale Agrario (INA) attese la richiesta [avanzata dal COPINH e dai lencas di Montaña Verde], e si compromise ad emettere un titolo di proprietà comunale a favore della comunità di Montaña Verde, ossia degli abitanti della zona. L'INA emise una circolare ordinando che nessun civile e nessun privato avrebbero potuto celebrare accordi e contratti con oggetto l'acquisto delle terre di Montaña Verde, perché era già in corso il processo di riconoscimento della proprietà a favore delle comunità indigena che abitava il luogo", scrive Marcelino Miranda in Pensamiento en Tiempos Difíciles (Montaña Verde), sorta di autobiografia scritta nel carcere di Gracias e diffusa dal COPINH. Proprio lo stato d'avanzamento dei passaggi giuridici per la legalizzazione dei diritti dei comuneros di Montaña Verde sembra aver inasprito il comportamento dei terratenientes, che hanno avviato, con l'appoggio complice delle forze di polizia, una politica di sistematica repressione nei confronti dei leader della comunità. Nel 2000 Marcelino Miranda e suo fratello Secundino vennero arrestati con l'accusa di aver occupato illegalmente terre di proprietà di Demetrio Benítez. Nel 2001 fu la volta di Felipe Bejerano, vice-presidente del Consiglio Indigeno di Montaña Verde, e nel febbraio del 2002 stessa sorte toccò a Luis Benitez, pure membro del Consiglio. Luis e Felipe, accusati di furto e danno, sono stati liberati solo nell'aprile del 2003, dopo che già era stato realizzato l'operativo che ha portato all'arresto dei due fratelli Miranda. ...e quella dei sui nemici! Gli interessi economici legati alle terre di Montaña Verde sono forti, cosi che la lotta degli indigeni lencas affiliati al COPINH ha avuto forti ripercussioni in tutto il paese. Anche perché i nemici della comunità risultano legati ai poteri forti del Paese. "Sono potenti latifondisti che formano parte della élite di Honduras. La famiglia Calix Urtecho, ad esempio, che è stata quella che ha causato più problemi nella regione, ha connessioni politiche e militari. L'ex-Capitano Mario Calix Urtecho, morto da circa due anni, era stato anche uno dei massimi leader del Partido Nacional durante gli anni 80. Uno dei suoi figli è avvocato, notaio, ed è attualmente deputato del Congresso Nazionale, sempre per il Partito Nazionale, che è al Governo. Tra gli altri familiari c'è un poliziotto di alto rango, Wilfredo Urtecho Jeamborde, che nel corso degli anni 90 diresse un operativo di sfollamento forzato nella regione di Guaymas, Yoro, durante il quale furono torturati ed assassinati alcuni contadini. Tanto Wilfredo Urtecho Jeamborde come anche Mario Calix Urtecho furono addestrati nella Scuola delle Americhe, meglio conosciuta come la Scuola degli Assassini", secondo una denuncia del COPINH. I Miranda Dopo esser stati incarcerati numerose volte per presunti delitti relazionati con la problematica agraria, e sempre liberati dato che la Costituzione del Paese impedisce la detenzione di persone appartenenti ad etnie indigene per questioni relative al controllo della terra –secondo quanto ci ha spiegato Marcelino Miranda, intervistato nel carcere di Gracias nel novembre del 2005–, i poteri locali avevano bisogno di trovare un modo per spegnere la voce di protesta del Consiglio indigeno di Montana Verde. Non hanno, purtroppo, avuto successo. La forza di spirito non abbandona i fratelli Miranda, e con loro anche la comunità di Montana Verde: “Fratelli e sorella, siamo in questo posto, prigionieri –non prigionieri perché siamo dei criminali, ma perché abbiamo alzato una voce di giustizia, una voce per tutti quelli che non ce l’hanno […] Compagni, se è vero che si soffre in un posto come questo, è peggiore l’idea di essere schiavi per tutta una vita. È meglio, compagni, soffrire per un attimo mentre stiamo liberando la nostra gente, le nostre comunità” (intervista radio di Marcelino Miranda, novembre de 2005). Honduras, sotto lo stivale dell'imperialismo Il fallimento del sistema giudiziario, denunciato da AI nel caso dei fratelli Miranda, è solo la punta di un iceberg. L'economia hondureña è allo sbando, ed il Paese alla mercé degli interessi degli Stati Uniti d'America, della Banca Mondiale e della Banca Interamericana di Sviluppo (BID), tra Plan Puebla Panamá e CAFTA (Central America Free Trade Agreement). Come negli anni 20, quando il Paese era interamente controllato dalle compagnie bananeras U.S.A. United Fruit Company (UFCo, oggi Chiquita) e Standard Fruit, che avevano in mano l'economia di Honduras (all'export di banane corrispondeva l'88% del commercio estero), ancora oggi il piccolo stato centroamericano rappresenta un punto strategico e da occupare secondo gli interessi economici delle transnazionali e gli scontri delle guerre civili interne. Continuano ancora oggi, come negli anni 70 ed 80, quando si fecero più forti i conflitti armati in Centro America e si svilupparono sollevamenti insurrezionali e di liberazione, gli addestramenti in territorio hondureño delle truppe e dei corpi repressivi. Nella base del Comando Sur di "Palmerola", nei pressi della città di Comayagua, dove vennero preparati le truppe dei Contras, si è registrata anche nell'ultimo anno la presenza di truppe degli eserciti sudamericani. Intanto, Honduras ha partecipato alla sciagurata 'missione' in Iraq e - fedele ai dettami di Washington - il Presidente Ricardo Maduro ed il suo Governo hanno proposto che Cuba venga condannata dall'Onu per violazione dei diritti umani, "correndo ad inginocchiarsi di fronte alla richiesta degli Stati Uniti ma senza consultare il popolo hondureño" (COPINH, 2004), dimenticando l'apporto di migliaia di brigate volontarie di medici cubani, che prestano la propria opera nelle comunità del proprio disastrato Paese. 1.2 La questione negra: i garifuna e la resistenza ai megaprogetti di sviluppo turistico «Prima vivevamo poveri, ma almeno eravamo tranquilli». Ha le idee chiare il vicepresidente del Patronato di Triunfo de la Cruz, una comunità garifuna situata nel golfo di Tela, lungo la Costa Atlantica di Honduras. I garifunas, i neri di Honduras, sono centocinquantamila, il 2% della popolazione nazionale secondo le statistiche ufficiali; sono cinque o seicentomila (compresi quelli che vivono all’estero, principalmente negli Stati Uniti d’America) secondo i dirigenti di Ofraneh, l’Organización fraternal de los negros de Honduras che lavora dagli anni settanta in una trentina di comunità, dislocate lungo tutta la Costa Atlantica del Paese centroamericano. I discendenti dei primi garifunas giunti in Honduras alla fine del settecento, provenienti dell’isola caraibica di Sao Vicente, sopravvivevano dedicandosi alla pesca e all’agricoltura. A metà degli anni novanta, però, il Governo ha deciso che le loro terre erano una risorsa per il Paese e che loro, che lì vivono da 209 anni, erano di troppo. Da allora non c’è più pace per i garifunas, costretti a combattere una guerra impari contro alcune delle famiglie più ricche e potenti del Paese. Il nodo del problema è il turismo: per il governo (e per alcuni imprenditori che ne muovono i fili) rappresenta l’unica salvezza per la disastrata economia del Paese. Anche il Washington Post, nel gennaio del 2004, ha scritto che attualmente l’Honduras oggi una delle prime dieci destinazioni turistiche a livello mondiale. L’ex ministro del Turismo Thierry de Pierrafeu (il governo è cambiato il 27 gennaio scorso, dopo le elezioni di fine novembre) lo definisce “Eco-etno turismo”: mettere a disposizione del turista la natura del paese e la ricchezza culturale dei suoi popoli originari. Svenderle, secondo i garifuna che non credono che il turismo porterà prosperità e lavoro per la gente delle comunità. «Al più ci chiameranno a lavorare come camerieri, o per sculettare nei nostri “balli tradizionali”» racconta il presidente del Patronato. Nel 1992 ci fu il primo tentativo di investire a Triunfo de la Cruz. Il progetto si chiamava Marbella, un complesso residenziale lungo una striscia di sabbia di almeno tre km, dal villaggio fino alla riserva naturale di Punta Izopo. Ville con giardino in riva al mare, piscina e belle mura in cemento armato. Per aggirare la legislazione nazionale, che protegge l’inalienabilità delle terre comunitarie, protette dalla Costituzione (oltre che dalla Convezione n. 169 dell’Organizzazione internazionale del lavoro, ratificata dall’Honduras nel giugno 1994), il Governo municipale di Tela ha votato una delibera secondo la quale il territorio di Triunfo de la Cruz apparteneva al centro urbano della città. Un espediente per poter iniziare a privatizzare la costa: la lottizzazione oggi va avanti con il finanziamento dell’Unione europea, nell’ambito del programma Path (Programa de Administración de Tierras de Honduras), realizzato con la collaborazione di Organizzazioni non governative che si occupano delle attività di catasto (tra le altre, l’italiana Cisp, Comitato Internazionale per lo Sviluppo dei Popoli www.cisp-ngo.org). Anche se l’opposizione ha fermato Marbella (sono state costruite solo una decina di ville più una mezza dozzina di scheletri rimasti incompleti vicino alla spiaggia), la comunità ne paga oggi le conseguenze: Triunfo de la Cruz ha subito seri danni per le piogge torrenziali che hanno colpito l’Honduras nell’autunno del 2005. I corsi d’acqua sotterranei, ingrossati dalle piogge, hanno trovato nei muri di cemento armato un ostacolo al proprio cammino verso il mare e se lo sono aperto dove hanno potuto: tra le case della comunità. Molti hanno perso tutto. Sono nati nuovi fiumi (uno è stato ribattezzato rio Gama, dal nome dell’ultimo uragano del novembre 2005) e una parte della comunità oggi è raggiungibile solo in canoa. Per il caso Marbella, Alfredo Lopez, rappresentante di Ofraneh a Triunfo de la Cruz, si è fatto sette anni di carcere. L’accusa a suo carico, montata ad hoc dai pubblici ministeri, era di traffico di sostanze stupefacenti. La sua colpa, quella di essere uno dei leader della comunità. Alfredo non è mai stato processato. «Mi hanno preso una prima volta nel 1995. Due paramilitari. Mi ha interrogato l’intelligence: mi chiedevano se sapevo cosa ci fosse in gioco con il progetto. Lì ho capito che stavamo toccando interessi forti». La detenzione iniziò il 27 aprile del 1997, a Tela. «Quattro giorno dopo il mio arresto venne ucciso in un ristorante Jesus Alverez, un altro dei leader di Triunfo», continua Alfredo. «Il movimento perdeva due persone importanti in un colpo solo. L’organizzazione era a terra e tutti i progetti collettivi si fermarono», ricorda. Nel frattempo grazie a una radio comunitaria Alfredo riusciva a comunicare con la sua gente e appoggiava così, dall’interno del carcere, la rinascita del Comitato, alla cui guida attualmente c’è Teresa Reyes, sua moglie. A tre anni dall’arresto, Alfredo riceve un’offerta che rispedisce al mittente: soldi in cambio del permesso per far entrare il progetto nelle comunità. Rifiuta e viene trasferito nel carcere di Puerto Cortés, a più di 200 km da Triunfo de la Cruz: «Dopo cinque anni senza un processo era chiaro che fossi un prigioniero politico. Presentammo il caso alla Commissione Interamericana di Diritti Umani (CIDH) per riesaminarlo. Alla fine sono uscito dopo quasi sette anni, ma senza che fosse fatta giustizia». La nuova battaglia di Alfredo Lopez e di Ofraneh è contro “Los Micos. Beach and golf resort”. Conosciuto come proyecto Bahia de Tela, è la punta di diamante nella strategia di sviluppo turistico di Thierry de Pierrefeu: alberghi di lusso, 2.000 appartamenti, 6 multi-residences per un totale di 168 ville, centri commerciali, parchi tematici e di intrattenimento. Sono previsti anche un campo da golf e un villaggio garifuna ricostruito all’interno del complesso. In totale, un mostro di oltre 300 ettari in una zona vergine tra i villaggi di Tornabé e San Juan. Per un investimento stimato tra i 140 e i 200 milioni di dollari. Opporsi è rischioso. A novembre hanno bruciato la casa di Wilfredo Lopez di San Juan de Tela. Hanno cercato di bruciarlo vivo, insieme ai documenti raccolti sul progetto. Il 15 gennaio altri membri del Patronato e del Comité di San Juan sono stati attaccati da pistoleri quasi sicuramente al soldo di Promotora de Turismo (PROMOTOUR), l’agenzia di proprietà di Jaime Rosenthal Oliva, uno degli imprenditori più ricchi di Honduras, che pretende il controllo delle terre di San Juan Nuevo. Fanno parte, però, del titolo di proprietà collettiva della comunità de San Juan: «1775 ettari che i garifuna utilizzano dal 1911» precisano quelli di Ofraneh denunciando l’attentato. «Il governo è infuriato con il popolo garifuna. Funzionari vengono inviati nelle comunità per spiegare i benefici di Bahia de Tela. Noi vogliamo che ci dimostrino quali saranno questi benefici», si arrabbia Miriam Miranda, coordinatrice di Ofraneh. Per questo stanno cercando di comprare i leader comunitari: sono quasi riusciti a fermare le proteste a Tornebé e Miami, un’altra comunità della baia. A Triunfo de la Cruz sono esperti: con il Fondo Prosperidad della Banca mondiale hanno provato a dividere il Patronato offrendo prestiti personali ad alcuni leader per avviare piccole attività economiche (forni, bed & breakfast). Non ce l’hanno fatta: la gente ha ben presente lo sfacelo di Roatán, l’isola al largo della Costa Atlantica che è diventata la Cancún dell’Honduras. Hotel, villaggi vacanze, bar e internet café gestiti da compagnie occidentali sulla spiaggia bianca dei Caraibi, senza alcune ricaduta positiva – né economica (al di là dei posti di lavoro) né sociale – per la popolazione locale. I garifuna non ne vogliono una in casa propria, anche se raccontano sia l’unico progresso possibile. È meglio, pensano, restare poveri ma tranquilli. «Non siamo contrari al turismo. Siamo contro questo tipo di turismo». 2. Le risorse naturali 2.1 Il “cartello del legno” “Difendiamo i boschi”. In Honduras è poco più che uno slogan, riportato sulle targhe di tutti i veicoli immatricolati nel paese. Il Governo, gli amministratori pubblici e gli imprenditori più ricchi e potenti della piccola Repubblica centroamericana (112mila kmq di superficie, circa 7 milioni di abitanti) formano un cartello che in nome del profitto sta mettendo a rischio le risorse forestali di Honduras. Per legge, 24 leyes differenti, la più importante delle quali è la Ley Forestal del 1972, è possibile tagliare fino 1,2 milioni di metri cubi di legname ogni anno, anche se la cifra reale è sicuramente maggiore, “perché non esiste alcun controllo sullo sfruttamento illegale delle foreste”. Non sono solo le Ong ambientaliste a denunciarlo; ad ammetterlo è Gustavo Morales, già responsabile della gestione forestale per conto del Governo honduregno. Tra il 1990 ed il 2000, l’Honduras ha perso circa il 10% della propria superficie forestale (5,4 milioni di ettari, in totale, nel 2000). Secondo uno studio del 2003, la metà dei pini -che rappresentano il 96% degli alberi tagliati e la maggior parte del legname esportato- e l’80% del mogano -più prezioso- vengono tagliati illegalmente. Olancho, il più grande tra i dipartimenti in cui è diviso l’Honduras, con una superficie di oltre 24.500 kmq, è anche la riserva forestale del paese. Quasi il 50% delle foreste di Honduras si trovano nei suoi confini. Non per molto, però: secondo il Movimento Ambientalista dell’Olancho (MAO), in lotta contro i tagli illegali, ogni cinque minuti si distrugge un ettaro di bosco. 120 camion escono ogni giorno dall’Olancho caricando almeno 20 metri cubi di legname. 10 milioni di alberi sono tagliati ogni anno. Leader del MAO è Padre Andrés Tamayo, sacerdote salvadoregno parroco nel municipio di Salamà: “Ho visto gli alberi scomparire e le piogge ridursi, e i contadini iniziare a perdere i propri raccolti e soffrire la fame. Questo mi ha fatto prendere la decisione di pronunciarmi per la loro difesa”. Così Tamayo spiega il proprio impegno, che lo ha portato nell’aprile di quest’anno a ricevere negli Stati Uniti d’America il prestigioso Goldman Prize, una sorta di premio Nobel per l’ambiente. Intanto, proprio dagli Usa arriva la conferma dell’esistenza di una “rete per la depredazione forestale in Honduras”. Una ricerca sul campo realizzata nel corso del 2005 dall’Agenzia per l’Investigazione Ambientale (EIA) e dal Center for International Policy (CIP) denuncia, tra l’altro, la devastazione della Riserva della Biosfera del Rìo Platano, la più grande del paese, che copre 800.000 ettari nella regione nordorientale di Honduras, tra i dipartimenti di Colòn, Gracias a Dios e Olancho. Stabilita nel 1980 per proteggere una sezione vitale del Corridoio Biologico Mesoamericano, si stima che già un 10% della Riserva sia stato ‘tagliato’ (illegalmente). Tanto che, dal 1996, l’UNESCO classifica l’area “in pericolo”. I ricercatori dell’EIA, spacciandosi per imprenditori stranieri interessati ad investire in Honduras, hanno intervistato alcuni dei principali industriali del settore. Il più ricco è senz’altro il cubano José Lamas, “l’intoccabile”. Quando nel 2004 la Magistratura cercò di indagarlo, sparirono dagli uffici della Cohdefor ( la Corporacion Honduregna de Desarrollo Forestal) tutti i documenti che autorizzavano le sue attività. La sua Aljoma Lumber, con sede a Medley, in Florida, è il principale importatore di legname honduregno negli Usa: 70 milioni di tavole all’anno (il 60% dell’export del paese), per un fatturato di oltre 200milioni di dollari. Lo stesso Lamas è presidente e principale azionista di Bamer (Banco Mercantil de Honduras), che riunisce i più grandi speculatori del paese finanziandone gli investimenti (tra gli ultimi, quelli per il controllo dei quattro aeroporti internazionali di Honduras e per partecipare al progetto di sviluppo turistico della Bahia de Tela, che vede interessati anche capitali italiani). L’EIA ha incontrato anche Gilma Noriega, figlia di Guillermo, titolare di Maderas Noriega, un’altra impresa che esporta vari milioni di tavole ogni mese, principalmente verso gli Stati Uniti d’America e il mercato europeo. “Attualmente, pagando non avrà problemi con il Governo”, ha risposto a chi gli chiedeva come ‘entrare’ nel mercato honduregno del legname. E ancora: “Lavoriamo in Olancho da 16 anni. Basta trovare un accordo con il sindaco, e pagarlo perché le permetta di continuare”. La corruzione tocca, naturalmente, anche le strutture governative. Nel 2004, il direttore di Cohdefor, Gustavo Morales, è stato costretto a dimettersi proprio per aver favorito Noriega, concedendo permessi di taglio in Olancho. La corruzione nella Cohdefor è pratica comune: molti ingegneri e tecnici accettano mazzette per ‘segnare’ più alberi di quelli per i quali ufficialmente si è dato il permesso di taglio, facilitando in questo modo il taglio illegale; gli impiegati incaricati delle ispezioni informano gli industriali prima di realizzarle. Spesso, poi, quando si tratta di visitare le regioni prima di concedere i permessi, il viaggio dei funzionari di Cohdefor è pagato dalle stesse imprese. Dal taglio al trasporto: agenti di polizia permettono il passaggio di camion che caricano un volume di legname con documenti falsificati o utilizzati illegalmente per numerosi carichi. Un vero e proprio “cartello” cui le organizzazioni ambientaliste hanno risposto organizzando una Marcha por la vida e chiedendo una moratoria al taglio nella regione orientale del paese. Nulla, purtroppo, la risposta delle autorità. 2.2 La corsa all’oro Da "Repubblica delle banane" a "Repubblica delle miniere". Settant’anni fa a controllare Honduras erano le compagnie bananiere –le ‘nonne’ della Chiquita e della Dole–; oggi –invece– la piccola Repubblica centroamericana è alla mérce delle imprese minerarie, per lo più canadesi e statunitensi. Le concessioni già rilasciate coprono più di un terzo del territorio nazionale (112.088 km2 la superficie di Honduras), ma quando verranno accettate le 147 richieste avanzate negli ultimi due anni si arriverà al 45,2%. La metà di un paese ‘regalato’ all’industria estrattiva in cambio di briciole: le royalty sono dell’1%, secondo uno standard imposto dalla Banca Mondiale, che negli ultimi anni ha contribuito a riscrivere le leggi minerarie in una settantina di paesi; il Governo è incapace, a causa della corruzione (l’Honduras occupa il 107° posto su 159 paesi nella classifica di Transparency International, vedi Ae n. 64), –ma anche impossibilitato, a causa della morsa del debito estero–, di governare le risorse naturali (minerali, foreste, pianure alluvionali, spiagge) nell’interesse del paese e dei cittadini. Una storia vecchia come il mondo, o almeno come la Conquista, quella delle miniere in America Latina, descritta splendidamente da Eduardo Galeano nel suo Le vene aperte dell’America Latina; la storia che ritorna, oggi che l’oro tocca i 520 dollari la oncia (31 grammi, circa), il valore più alto degli ultimi 22 anni, e sono lontani gli anni 90 (un’oncia scambiata per 253,2 dollari). La corsa è ricominciata. «La nuova Ley de Mineria, approvata subito dopo l’uragano Mitch che colpì Honduras e tutto il Centro America nel 1998, venne presentata come una strategia per la riduzione della povertà: avrebbe attratto gli investimenti esteri e generato posti di lavoro», spiega Salvador Zuniga del Copinh –il Consiglio civico di organizzazioni popolari e indigene di Honduras–. Una bella favola, a cui non crede nessuno: la Ley, affermano funzionari del DEFOMIN – Dirección Ejecutiva de Fomento a la Minería, l’organo di verifica della regolarità delle concessioni, invitato però (e di fatto) a fomentare l’attività estrattiva–, è stata scritta dall’ANAMIN, il cartello delle imprese minerarie. Non a caso, perciò, promuove gli interessi di queste: un'unica licenza le autorizza ad avviare le attività di esplorazione e di sfruttamento delle miniere (exploración y explotación in spagnolo, fino al 1999 erano necessari due permessi distinti). Pensate: se tutti i concessionari iniziassero insieme le attività estrattive, Honduras diventerebbe un’unica, grande, miniera; le imprese, poi, possono espropriare “per ragioni di pubblica utilità” terreni confinanti con le concessioni, anche quando «i legittimi proprietari non danno il permesso», e «utilizzare [tutte] le acque, dentro e fuori la concessione». Un saccheggio legalizzato, insomma. Come quello della miniera San Martin, nel Valle del Siria, «eletta –ci racconta Sandra Cuffe, canadese, attivista e ricercatrice, in Honduras da tre anni per Rights Action– a simbolo della minaccia portata dalla nuova legge». Nel 2000 sono iniziate le attività estrattive di Entre Mares, sussidiaria hondureña della canadese Glamis Gold, e da allora niente è più come prima. La minaccia più grande si chiama cianuro. Secondo lo studio d’impatto ambientale, «l’oro può essere estratto a basso costo, e ciò assicura la sostenibilità economica del progetto». Come? La San Martin è una miniera a cielo aperto e i costi (economici) d’estrazione sono fino a 10 volte più bassi. Utilizza, però, un processo ad alto impatto ambientale e energetico: prima si tagliano tutti gli alberi e si fa saltare il coperchio –migliaia di tonnellate di terra, liberando nell’ambiente altri minerali potenzialmente dannosi–, poi si estrae l’oro –disseminato nella roccia– utilizzando il cianuro per separarlo dagli altri minerali. La miniera crea 18mila t di detriti rocciosi al giorno (per dieci anni) e impiega –ogni anno– 6mila t di cianuro di sodio (è sufficiente una molecola ad uccidere un organismo vivente delle dimensioni di un grosso pappagallo. Nel gennaio 2003, una fuga avvenne nella miniera d’argento San Andrés, sempre in Honduras: almeno 18.000 pesci morirono nel Río Lara, da cui si riforniscono di acqua numerose comunità indigene e la città di Santa Rosa de Copán); l’acqua utilizzata nel processo –«Siamo autorizzati al consumo di 220 galloni (832.8 litri) al minuto», commenta il direttore di Entre Mares, e fatti due conti risultano oltre 650milioni di litri d’acqua all’anno– viene re-immessa nell’ambiente. Inquinata. Nel corso del 2004 la Caritas Arcidiocesana di Honduras ha fatto svolgere analisi indipendenti –autorizzate da Entre Mares e dal DEFOMIN– su campioni di acqua e di detriti (7, prelevati in 6 differenti siti alla presenza di rappresentanti dell’impresa e del Governo). In quattro dei sette campioni d’acqua è presente arsenico (ben) oltre il livello di guardia (fino a 0,054mg/l quando il limite consentito è di 0,01); in tre dei sette campioni di sedimenti è presente mercurio (6,27mg/kg con una soglia di guardia di 0,11). Gli effetti si fanno sentire: la gente si ammala –malattie della pelle, respiratorie e gastrointestinali– e, al di là delle giustificazioni dell’impresa –«È per la sporcizia e per il contatto con gli animali»–, le malattie sono legate all’inizio delle attività estrattive. Il dottor Juan Almendares e la fondazione Madre Tierra hanno realizzato periodiche brigate mediche nel Valle del Siria. Alla fine del 2003 –l’ultimo dato a disposizione–, il 98% della popolazione di El Pedernal (la comunità più vicina alla miniera, 1.690 abitanti) soffriva di problemi dermatologici (con un aumento significativo, rispetto al 12% del 2001), il 30% di malattie respiratorie, il 36% di patologie neurologiche (insonnia, stress, ansia); secondo un’inchiesta della rivista El Libertador, invece, nel 17,7% delle famiglie ci sono più di due persone malate. A causa dei prelievi selvaggi dell’impresa anche l’acqua scarseggia. In una regione che era il granaio della capitale, Tegucigalpa, 70km più a sud, la gente è costretta oggi a comprare mais e fagioli; i raccolti si sono ridotti del 15-20% e circolano meno soldi, ma adesso –secondo El Libertador– l’83,9% degli abitanti di El Pedernal, situata agua abajo rispetto alla miniera, deve acquistare l’acqua da bere e per cucinare. La popolazione è esasperata e si acuisce la lotta contro la miniera San Martin: la guidano il Comité Ambientalista Valle de Siria e il neonato SITRAMEMHSA, Sindicato de Trabajadores de Minerales Entre Mares de Honduras S.A., cui hanno aderito 190 dei 260 lavoratori della miniera. Nel 2004, un alleanza di organizzazioni della società civile ha anche presentato una proposta di riforma della Ley de Mineria, che il Governo non ha nemmeno preso in considerazione. Poco importa abbia le mani in pasta o le mani legate, il risultato non cambia. A cura di Luca Martinelli |