Emilia Giorgetti
La storia La notte scurissima dell’America Centrale comincia negli anni ’80, subito dopo la rivoluzione sandinista in Nicaragua. Si chiamò “dottrina di sicurezza nazionale”. In nome della pace, gli USA dichiararono guerra a chi lottava per il diritto a tre pasti al giorno e l’Honduras si convertì rapidamente nella piattaforma contro rivoluzionaria della regione: un laboratorio di guerra contro il sandinismo vittorioso e i movimenti rivoluzionari di Guatemala e El Salvador, ma anche contro chiunque, al suo interno, si ostinasse a sognare un paese diverso. Mentre gli squadroni della morte addestrati nelle basi USA si occupavano di annientare il dissenso, Washington stabilì in Honduras anche una democrazia di facciata. In un paese che da decenni viveva sotto governi de facto, dettò una nuova Costituzione e impose le elezioni. In quella che può essere definita la Repubblica delle Banane per eccellenza, dove, fino dai primi anni del ‘900, le compagnie bananiere avevano stabilito le proprie enclave extraterritoriali, l’oligarchia dominante si adattò al nuovo regime “democratico” apprestandosi ad inaugurare un ventennio di governi fantoccio legittimati dal potente alleato del nord. Si spartirono tutto. Le maggiori cariche politico-istituzionali, così come ogni possibile fonte di ingresso – la terra, l’attività mineraria, le telecomunicazioni, il turismo – si concentrarono stabilmente sotto il controllo di una oligarchia composta per la maggior parte da famiglie di origine straniera, i cosiddetti “turchi”, arrivati dopo la prima guerra mondiale e la conseguente disgregazione dell’impero ottomano: i Facussé, i Canahuati, gli Hilsaca, i Rosenthal, i Nasser e pochi altri, tuttora padroni indiscussi del paese.
Anche Manuel “Mel” Zelaya era un membro a tutti gli effetti della casta. Il nome della sua famiglia di ricchi proprietari terrieri è associato al massacro di Los Horcones, avvenuto nel 1975 nella finca del padre. Furono uccise almeno 15 persone, tra le quali due sacerdoti cattolici, castrati e mutilati brutalmente, alcuni contadini, bruciati vivi nel forno per il pane, e alcune donne, gettate in un pozzo che venne poi fatto esplodere. Per questi episodi di violenza estrema il padre di Mel fu condannato a 20 anni, anche se fu amnistiato prima di aver scontato due anni della pena.
Il golpe contro Zelaya Quando nel 2006 Mel giunse al potere attraverso il partito liberale nessuno si immaginava che, una volta seduto sullo scranno più alto, avrebbe voluto provare a cambiare qualcosa. Aveva ereditato dai suoi predecessori il paese più povero dell’America Latina ed uno dei più diseguali al mondo. Inaspettatamente, aprì le porte della casa presidenziale a chiunque volesse parlargli: ascoltò, valutò ed iniziò a prendere alcune decisioni rivoluzionarie. Aumentò il salario minimo, rese completamente gratuita l’istruzione primaria, concesse prestiti agevolati ai piccoli agricoltori, introdusse sovvenzioni sul carburante, intavolò le prime timide trattative con i movimenti sociali e contadini e, soprattutto, strinse stretti rapporti commerciali con il Venezuela di Chávez. Tutti provvedimenti che mettevano in serio pericolo le opportunità per l’oligarchia dominante di continuare a gonfiare patrimoni già ipertrofici. Dal canto suo, anche Washington giudicò pericoloso per i suoi interessi nella zona l’avvicinamento di un’altra tessera del mosaico latinoamericano all’Alleanza Bolivariana di Chávez.
Il pretesto per la destituzione fu il referendum del 28 giugno 2009, indetto da Zelaya per interrogare il popolo sull’opportunità di aggiungere, in occasione delle elezioni politico-amministrative da svolgersi alla fine dell’anno, una quarta urna da utilizzarsi per la convocazione di una Assemblea Costituente incaricata di riscrivere la Carta del 1982. “Un tentativo sfacciato per restare al potere” questo è il messaggio che i gruppi golpisti veicolarono all’estero e che ha raggiunto anche l’Italia, dove tutti i media lo hanno ripetuto in coro, senza nessun tentativo di approfondimento. E, sulla base di questa tesi falsa o, comunque, non dimostrata e indimostrabile, nella notte tra il 27 e il 28 giugno un commando dell’esercito assaltò l’abitazione di Zelaya e caricò a forza il presidente ancora in pigiama su un aereo con destinazione San José de Costa Rica, aprendo una lunga stagione di repressione e violenze che ancora continua. Quando si svolsero le elezioni del novembre 2009 il coprifuoco dichiarato all’indomani del golpe era ancora in vigore e la resistenza continuava a manifestare per le strade, negandosi a partecipare ad una consultazione che riteneva illegittima. Il risultato fu l’elezione dell’attuale presidente Porfirio Lobo e di un Congresso in cui una percentuale significativa della popolazione honduregna non è rappresentata. L’ astensione raggiunse infatti il livello record del 60%. In assenza di opposizione, la classe politica emersa dal golpe ha avuto mano libera. Le conquiste a favore degli ultimi sono state rapidamente azzerate e i conflitti sociali si sono riattivati con maggiore crudezza. Le recenti leggi sull’attività mineraria e le zone speciali di sviluppo sono solo gli ultimi tasselli di un piano integrale per la completa privatizzazione di quello che resta del territorio nazionale.
La presidenza golpista Pur partendo già da una situazione di estrema violenza e di illegalità diffusa, nei quattro anni trascorsi dal golpe del 2009 l’Honduras è diventato il paese più pericoloso del mondo, con il più alto tasso annuo di omicidi (92) ogni 100000 abitanti. Durante l’amministrazione Lobo sono stati assassinati 36 giornalisti: un secondo primato mondiale per l’Honduras, che porta con sé la negazione dei diritti di libera espressione e di informazione. E, man mano che le nuove elezioni si avvicinano e che i sondaggi sembrano favorire il nuovo partito Libertad y Refundación (LIBRE) nato dal movimento di resistenza al golpe, il livello di violenza sale. Le 80000 guardie private al soldo delle grandi imprese, con l’esercito e la polizia sguinzagliati nelle strade sotto il comando di un unico superministro per la sicurezza, esercitano il proprio potere sui cittadini inermi, macchiandosi di un crimine dopo l’altro. Si torna a parlare di squadroni della morte, tanto che a Washington, in una interrogazione parlamentare, 21 senatori democratici hanno chiesto che gli USA sospendano gli aiuti militari alle autorità honduregne.
Alla vigilia delle elezioni 2013 Valentín Caravantes e Celso Ruiz, dirigenti del movimento contadino MOCSAM, sono stati assassinati da una pattuglia di guardie private lo scorso 17 maggio a Cowlee, nel nord ovest del Paese, sotto gli occhi della polizia. La sera del 15 giugno, Marvin José Rivera, un giovane attivista del partito LIBRE, stava rientrando a casa quando fu raggiunto da alcuni colpi di pistola. E’ morto poche ore dopo in un ospedale di Tegucigalpa. Il 25 giugno, nel dipartimento di Olancho, un gruppo di uomini armati di fucili AK47 ha aperto il fuoco sull’auto dove, al rientro da un’assemblea del partito LIBRE, viaggiavano Silvia Aguiriano de Sarmento, sua sorella e una guardia del corpo. Non ci sono sopravvissuti. Nel primo pomeriggio del 24 giugno, a San Pedro Sula, l’auto del noto conduttore di TV Globo Aníbal Barrow è stata intercettata da un gruppo di uomini armati che, dopo aver costretto gli altri passeggeri a scendere, sono fuggiti portando con sé il giornalista. L’auto è stata ritrovata poche ore dopo: c’erano tracce di sangue e una protesi dentaria. Il corpo di Aníbal, invece, è comparso solo il 9 di luglio, abbandonato in uno stagno, smembrato e parzialmente carbonizzato, grazie alla soffiata di un pentito. Secondo le sue dichiarazioni, due personaggi potenti hanno pagato 20000 $ per liberarsi di un giornalista scomodo. Tomás García era in resistenza pacifica da quasi tre mesi con la sua comunità indigena, per proteggere i territori ancestrali di Río Blanco, Intibucá dalla devastazione di una nuova centrale idroelettrica. Dopo ripetute minacce di morte, è stato assassinato il 15 di luglio da un gruppo di militari.
In questo grande carcere, verde e accidentato, i cui abitanti annaspano e si agitano nel tentativo di stabilire una convivenza possibile, il potere gioca ogni carta pur di mantenersi in sella. Accanto a quella grossolana e abusata della violenza, anche quella dell’amore e della pacificazione attraverso Dio. Il 20 luglio, proprio nel giorno in cui si celebra l’eroe nazionale Lempira, una delegazione di 3000 “missionari” evangelici provenienti dagli USA e guidata dal giovane predicatore Dominic Russo si è sommata al presidente Lobo, a migliaia di membri delle forze armate e della polizia, ad attivisti, amministratori e candidati di tutti i partiti honduregni, tranne LIBRE, ed ha marciato simultaneamente in tutto il territorio nazionale al grido di “Un Giorno, Una Nazione”, per portare “un messaggio di pace a tutti”, con “l’auspicio che nascano leader non corrotti e capaci di lavorare per il bene del popolo e per esaudire il suo desiderio di lavoro e di pace”. Scrive Dominic Russo sul suo blog: “Quando avevo 20 anni il Signore mi ha parlato. Mi ha chiesto di portare la sua Parola nelle nazioni in via di sviluppo e di essere un esempio per le nuove generazioni d’America.” La posta in gioco nella prossima competizione elettorale è chiarissima ed altrettanto chiaro è da che parte stanno gli Stati Uniti.
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