Un rapporto di Amnesty International descrive la condizione che vivono gli attivisti nei due Paesi del Centro America. Secondo la coordinatrice Erika Guevara-Rosas, “sparare a qualcuno a bruciapelo perché ha scelto di affrontare interessi economici molto forti è, in pratica, permesso”. L’organizzazione lancia una campagna sul caso emblematico di Berta Cáceres, Goldman Prize 2015, assassinata sei mesi fa nella sua casa
“Difendere i diritti umani è una della professioni più pericolose in tutta l’America Latina, ma aver la pretese di proteggere le risorse naturali vitali trasforma questo ‘lavoro a rischio’ in qualcosa di potenzialmente letale”. Erika Guevara-Rosas è la direttrice per le Americhe di Amnesty International, e questa frase l’ha pronunciata a inizio settembre, a margine della presentazione del rapporto “Difendiamo la terra con il nostro sangue”, un’indagine sul campo condotta all’inizio del 2016, con interviste realizzata ad organizzazione e difensori del territorio e dell’ambiente in due Paesi dell’America Centrale, Guatemala e in Honduras.
Scelti, spiega l’organizzazione, perché si tratta delle nazioni con il più alto tasso di omicidi pro capite nell’intera regione tra coloro che s’impegnano attivamente per la tutela delle risorse naturali: “Un sorprendente 65 per cento degli omicidi di difensori dell’ambiente che lavorano su questioni legate a terra, territorio e ambiente registrati nel mondo nel 2015 (122 su 185) sono avvenuti in America Latina”. Di questi, ben otto in Honduras e 10 in Guatemala.
Nei due Paesi oggetto di questo rapporto, che è il primo di una serie di inchieste dedicate a tutti i Paesi dell’area, Amnesty International ha potuto individuare alcune delle cause fondamentali della situazione, che in Guatemala rimandano al conflitto armato interno che si è chiuso con gli Accordi di pace del 1996: il tema è quello del “nemico interno”, che negli anni Ottanta ha portato a compiere un genocidio nei confronti dei popoli indigeni, e che oggi si traduce in una campagna costante di diffamazione e stigmatizzazione per portare discredito sui difensori dell’ambiente. Secondo quanto riscontrato da Amnesty, l’utilizzo costante di termini come “terrorista”, “nemico”, “oppositore”, “delinquente” e anche “narcotrafficante” nei confronti dei membri delle organizzazioni di tutela dei diritti umani incrementa il numero di attacchi, aggressioni e minacce nei loro confronti.
Per quanto riguarda l’Honduras, a partire dal colpo di Stato del 2009 si è “rafforzata l’ostilità” nei confronti dei difensori, tanto che la maggioranza “delle comunità e dei movimenti intervistati da Amnesty vede tra i proprio membri soggetti beneficiari di misure cautelari di protezione concesse dalla Commissione interamericana dei diritti umani (CIDH)”. L’organizzazione sottolinea però come lo Stato hondureño sia “venuto meno nell’implementazione di misura di protezione effettiva per i difensori”. E cita, come esempio, il caso di Berta Cáceres Flores, coordinatrice generale del COPINH e Goldman Prize 2015, assassinata nella sua casa de La Esperanza nella notte tra il 2 e il 3 marzo del 2016. Anche Cacéres Flores avrebbe dovuto godere di misure cautelari.
Secondo Erika Guevara-Rosas, “il tragico omicidio di Berta Cáceres pare aver marcato un punto di svolta mortale per coloro che difendono i diritti umani nella regione. La mancanza di un’inchiesta trasparente ed effettiva sul suo omicidio ha trasmesso l’abominevole messaggio che sparare a qualcuno a bruciapelo perché ha scelto di affrontare interessi economici molto forti è, in pratica, permesso”.
Dal 2013, Berta Cáceres aveva ricevuto numerose minacce di morte a seguito dell’opposizione alla costruzione di una diga, il progetto Agua Zarca.
Amnesty ha presentato il rapporto su Honduras e Guatemala il 1° settembre. Il giorno successivo, a sei mesi esatti dall’omicidio di Berta Cáceres, l’organizzazione ha promosso una campagna internazionale per chiedere giustizia. Anche perché tra marzo e luglio 2016 altri due leader del COPINH -Nelson García e Lesbia Urquía- sono stati assassinati (leggi qui l’appello).
Il 21 luglio scorso è stato presentato al Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite il rapporto relativo alla visita in Honduras dello Special Rapporteur on the rights of indigenous peoples, la filippina Victoria Tauli-Corpuz. Il documentato sottolinea che i familiari di Berta Cáceres hanno denunciato di non aver potuto accedere agli atti d’indagini, chiedendo -dopo l’arresto di cinque persone, accusate di essere gli autori materiali dell’omicidio- che l’inchiesta continui per arrivare ad individuare “i mandanti intellettuali del crimine”.
Nel report, Tauli-Corpuz -che durante la sua visita sul campo ha incontrato tra gli altri i ministri degli Esteri e dei Diritti umani e Giustizia- sottolinea come sia “consigliato che il Governo richieda ed accetti l’assistenza tecnica da esperti indipendenti e corpi internazionale, come richiesto dai familiari della signora Cáceres e da rappresentanti di organizzazioni indigene e della società civile”.
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